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La Cascata che fu

THEATRUM CIVITATUM ET ADMIRANDORUM ITALIAE DI GIOVANNI BLAEU

marmoreint4Non lontan dalla città, è da ammirare la Caduta del Velino, là dove con spaventoso fragore precipita nel Nera. Gli abitanti la chiamano “la Caduta delle Marmora”.

A dire il vero si dice che precipiti dall’alto sul Nera, dato che è difficile rendersene conto con gli occhi: infatti si vede una pioggia perpetua provocata dal battere delle acque piombanti sulle rocce e un arcobaleno originato dai raggi solari che colpiscono le gocce che cadono; tanto che Plinio(lib. 2., cap. 26) conferma: sul lago Velino non c’è giorno senza arcobaleno.

Strabone e lo stesso Plinio chiamarono questo luogo ombelico d’Italia, così che Virgilio (Eneide, 1.7) scrive: “Nel centro d’Italia, sotto alti monti, vi è un luogo nobile e a molti noto per fama“.

Una volta le acque precipitavano nel Nera da sette bocche, che i romani ridussero a tre e Clemente VIII ad una sola.


Un sonetto del Belli dedicato alla Cascata delle Marmore

belli

 

LI SCIARVELLI (1) DE LI SIGGNORI

Disce er padrone mio che cce so Ingresi

ch’oggni tantino attacheno la posta,

e a le dù a le tre (2) vviengheno apposta

da quer cùlibbus-munni (3) de paesi,

nun antro che ppé vvede in certi mesi

la Cascata del Marmoro, discosta

sei mia (4) da Terni, indòve sc’é anniscosta

‘na grotta che cce vò li lumi accesi.

Guarda mo ss’io volesse tiene ppronte

oggnisempre le gubbie (5) ar carrozzino

pe’ un pò d’acquacela che vvié ggiù dda un monte!

O ssai che cce voria? Che l’Avellino (6)

(che cquesto è er nome che jjé da er zor Conte),

in cammio d’acqua, scaricassi vino.

9 marzo 1834.

1) I cervelli. 2) ogni due o tre volte una, cioè di tanto in tanto. 3) Si diceva in “Culibus mundi”, per dire molto lontano. 4) sei miglia. S) Coppie di cavalli. 6) II Velino è recepito dal servo come Avelline.

DALLE ANTICHE RIFORMANZE MUNICIPALI

Già molto prima dell’epoca,che starerem per citare del 25 Aprile 1387, avevano inferocito, come in tutta Italia, così in Terni le ostinate fazioni de’ Guelfi e Ghibellini’questa Città (cui il Sansovino; e prima di lui Lucio Fioro appella antichissima nobilissima ripiena di popolo, e d’uomini bellicosi, sicché fra i soldati d’Italia tengano il primo posto) era in quest’epoca nel generale coscenziosamente di parte Ghibellina, avversando alla dominazione straniera, comecché fosse stata in antecedenza, e con vario avvicendamento ivi predominante la parte Guelfa; come viceversa per questa si teneva la Città di Narni.

Da ciò fiere discordie ed emulazioni armate fra entrambi questi luoghi,le quali sembra cessassero dopo una decisa disfatta toccata a Narni nel dì 6 Dicembre 1371, sacro alla festa di San Nicolò Vescovo”.

Dopo ciò, restituita in parte la pubblica tranquillità, e ritornata la Città nel suo antico ordine e costumanze, continuò come prima a reggersi a Comune, banditi i Guelfi che appellava Tiranni.

DALLA STORIA DI TERNI DI FRANCESCO ANGELONI

… Aderendo i primi alla Chiesa,e gli altri agl’imperiali, tano aumen¬tarono simili fazioni,che destata in Pistoia (la guerra, nda),ne fu ad un”tratto ripiena l’Italia; e Terni abbondonne di sorta, che ne sostenne gravissimi mali,essendo sempre i semi dell’armi gli esterminii dei luoghi e gli scrittori concordano,che per coi fatte civili discordie,restò quasi desolato; perchè gli uni contro gli altri combattevano del continuo su le torri, che ben 30O ve ne furono erette(a Terni,nda) per tal fine, danneggiandosi co’ pulsoni, sassi, dardi ed altre armi da lanciare: e per le strade si attraversavano, fra l’una torre e l’atra grosse e lunghe catene, per impediere le scorrerie. e per combattere a serraglio…

Di simil torri,e della suddetta altezza,e forse più, con le già mentovate catene, sono tuttavia alcune intere in Terni (ai tempi dell’Angeloni , nda); e le altre chiaramente si comprendono per le case in parte demolite: avendone taluna più numero forse perché da più lati, o con sforzo maggiore di persone,volessero ad offendere l’inimico,e con più istrumenti danneggiarlo; né a questi aspri casi, ed incendii voracissimi di fuoco, non era chi potesse, o sapesse riparare….

intanto con le origini delle due fazioni derivate dalla Germania “dopo la morte di Enrico V,per le contese insorte sull’elezione del Successore,fra Bavari Sassoni Svevi e Franchi, le quali divennero poco appresso indigene anco d’Italia al cominciar del XII secolo”. La riunione del Consiglio Comunale di Terni del 24 aprile 1387“riguardava i beni confiscati ai capi di parte Guelfa, li quali dopo disfatti dai Ghibellini venner cacciati in bando dalla Città, e le loro proprietà vennero incamerate dal Municipio per inflitta condanna di confisca. Doveasi disporre di questi. In tale stato di cose i fratelli Francesco e Angelo Seccadenari, i quali avean molto sofferto nella persona e nelle sostanze a difesa della Patria nelle sanguinose lotte contro i Guelfi, ai quali ardentemente avversavano, supplicarono in quella tornata il patrio Senato, perché’ -amore Dei pietatis et misericordie intuitu et partis gebelline- fossero in qualche modo reintegrati de’ sofferti danni, sovvenuti nell’affligente stato di loro miseria,a che si eran ridotti per aver religiosamente servito alla Patria, e per esser stati sempre fe¬deli Ghibellini… Venne accolta la dimanda, e fu loro concesso un reddito di 300 fiorini su i prodotti de’ beni confiscati ai profughi, o, quante volte si fosser dovuti restituire, venisse a loro profitto surrogato il reddito dei Molini del Comune a porta S.Angelo ed a quella dei Tre Monumenti,dopo però cessati gl’impegni contratti cogli Affittuari”.

“Non andò guari di fatti, che i manzionati capitali si dovessero rendere agli antichi proprietari. Imperocché il Cardinal Tonimaso Orsini Legato della Sede Apostolica in partibus Italie, con sua lettera prescriveva al nostro Magistrato l’immediata restituzione di essi, sempre che i reintegrandi avesser prestato solenne giuramento di mantenersi buoni e tranquilli Cittadini. All’autorevole invito, il Consiglio(comunale,ndr), ob reverentiam Remi D. Cardinalis, decretò la voluta reintegrazione de’ medesimi purché avesser pagate tutte le dative ed altri balzelli imposti su quelle proprietà dal mese di Settembre decorso, fino al dì della seguita restituzione, e l’ammontar dell’esatto fosse versato in mano dei fratelli Seccandenari, fino al contingente dei 300 fiorini decretati nel rammentato precedente Comizio”.

DAL SECONDO LIBRO DELLA STORIA DI TERNI DI ELIA ROSSI PASSAVANTI

II 1° gennaio 1349, i Ghibellini di Terni cacciarono dalla città i Guelfi, che ne rimasero fuori fino al 14 giugno dello stesso anno, per rientrarvi allora quasi tutti, dato che alcuni non vi furono riammessi che il 23 settembre : II 15 agosto del 1350 i Ghibellini ternani aiutati da armati del prefetto di Vico venuti da Narni, riespulsero i guelfi, ne saccheggiarono le abitazioni e ne distrussero le case e le torri. L’anno’dopo 1351, i ghibellini di Terni, di Todi e di Narni tentarono occupare il castello di “Sangemini” per consegnarlo al comune di Narni che da tanti anni aspirava al dominio di esso. Per un tentativo di pace fra gli avversi partiti il Comune di Terni inviava ai confini di “Sangemini” Iuccio Manassei, ma inutilmente. Era speranza dei ghibellini -conclude il Passavanti riportato alla letra di riuscire a scacciare per sempre la Chiesa dai territori umbri; essi non pensavano cosa stesse loro preparando il Cardinale Albornoz.

DALLE ANTICHE RIFORMANTE MUNICIPALI

15 settembre 1392: Né ancora del tutto erano spenti o dimenticati i mal umori, conseguenze delle passate fazioni. Per turpe esercizio di private vendette bastava deninciare qualcuno fautore di parte Guelfa, vero o falso che fosse, per trargli addosso l’odio pubblico: malvagità le più vile ed abbominevole, della quale però porgono tristi esempi anco le più recenti istorie! … Tali addebiti, né forse a torto da quel che sembra, eran dati allora agli uomini delle vicine terre di Collescipoli, di Stroncone e di Perticara. Fu per altro savio divisamento del nostro Comizio in questa tornata di voler posto un termine a tali invecchiate calunnie e perniciosi motivi di rancori:ed in seguito di eloquente arringa di Pietro Camporeali fu risoluto di doversi di doversi accordare un general perdono durevole e reciproco sul passato; di ritenersi casse ed annullate tutte le sentenze, incarti criminali iniziati in addietro realtivamente a ciò; le nuove colpe soltanto severamente si punissero, nuove discordie si ovviassero, poste in profondo oblio le antiche. Son pur commendevoli tali misure di transizione e molto ne avvantaggerebbe la quiete pubblica quando sempre venissero adottate in parità di’ circostanze! (sottolinea Lodovico Silvestri).

27 giugno 1387: Prima che il nostro Reggimento Municipale si fosse potuto riordinare nell’antica forma, si dovè fare appello a tutti coloro stati del partito Guelfo, e che avesser votato dichiararsi di parte Ghibellina, perché prestassero solenne giuramento in atti del pubblico Cancelliere ipsam partem gebellinam manutenere et defendere et promiserunt esse perfectissimi gebellini tempore eorum vite. Qui difatti son notati i Nomi de’ Giurati: e poiché la Città si suddivideva in sei rioni, così dessi sono notati distintamente per rione. Pertanto prestarono giuramento in quest’istesso atto:

I. Dal Rione de’ Fabri 27 Capi di famiglia di parte Guelfa;

II. Da quello di Castello 24;

III. Dal Rione Rigoni 13;

IV. Dall’altro degli Adultrini 12;

V. Da quel disotto 2;

VI. Dall’ultimo degli Amingoni 13.

Ancora Lodovico Silvestri: Ho creduto superfluo di registrare i singoli nomi di cotesti Capi di famiglia, perocché ne sia estinta la discendenza, meno che di Angelo Rustici,uno dei 13 del Rione Amingoni, cui non debbo preterire perché nepote di quel Pietro Rustici, il quale nel 1259 nella onorevole qualifica di Sindaco del nostro Municipio acquistò da Anselmo quondam Transarico Arroni la sua quarta parte del Castello di Papigno per il prezzo di 675 libre o lire Lucchesi (Librarum Lucentiura) .

4 agosto 1387: Splendido esempio di sensata e ben calcolata moderazione ci porge la saggia risoluzione presa dal generai Comizio in questo giorno. Quasi sempre è avvenuto che dopo i politici sconvolgimenti per lunga pez-za gli animi rimangono inquieti, esacerbati, od esaltati da odi personali, a basse vendette; gli occulti e vili delatori trovano terreno opportuno per innalzare sulle rovine altrui,ed il più delle volte dell’innocente istesso, il mal fondato edificio delle loro brevi fortune; edificio però che col corto volgere de’ giorni di sovente precipita! La cacciata de’ Guelfi da questa Città fu un serio avvenimento, come rammentammo; gli odj duravano ancora, e la vendetta non mai satolla dell’altrui danno. In questo era per giungere in Città il nuovo Podestà: era quindi facile alla malignità di qualcuno sorprenderlo, preoccuparne l’animo con inqui suggerimenti, e farlo addivenire incauto stromento della privata vendetta. Che però saggiamente si volle proposto in questa seduta consiliare: Item quid videtur et placet providere et reformare de modo et ordine retinendis super maleficiis commiss in dicta civitate et eius territorio per homines et personas diete civitatis et eius comitatus a tempore expulsionis tirapni(ossia de’ Guelfi)dicte civitatis usque nuc adeventus novi potestatis civitatis de proximo appropinquetur. Su di che –prosegue Lodovico Silvestri– con molto senno e prudenza fu risoluto: Che su i delitti riferibili strettamente a quell’epoca, non si fosse potuto in verun modo inquirere, neppur anco d’officio, dal nuovo Podestà; si obliasse l’idea e la reminescenza del triste passato; per nuovi reati si compilassero nuovi processi,o si compisser quelli già iniziati, ed avessero piena esecuzione con le norme di giustizia le sentenze rese in proposito, sia dal bargello in assenza del Podestà,sia da quest’istesso,con regolar procedura a forma di Or come simili calamità abbiadi vedute rinnuovarsi frequentemente anco a dì nostri, potrem dire in buona coscienza che siensi adottate fra noi eguali sagge misure per ovviarne i tristi effetti? Io son d’avviso -conclude il ricercatore papignese- che i nostri padri sieno stati in ciò assai migliori di noi tardi nepoti!

9 maggio 1388: Cessati, come vedemmo, i passati sconvolgimenti nell’interno della Città e raffreddati in gran parte gli odi delle fazioni, molti de’ Gulefi, che si ereno allontanati, venivan rimpatriando e per lo più clandestinamente, né tutti si comportavano con tranquilla prudenza; il perché si venivan ridestando alla volta i rancori di parte. Fu sollecito il patrio Senato a sancire, che veruno di coloro potesse ri¬entrare in Città, se non fatta preventivamente formale istanza la Magistrato ed al Consiglio (comunale,ndr) pel bramato rimpatrio, e ne fosse decretato il permesso. Questo ottenuto,i reduci prestassero solenne giuramento in atti del Cancelliere di vivere e di condursi da onesti perfetti ed apostolici Ghibellini (Apostolici perché specialmente Innocenze VIII a quei dì regnante non che altri Papi di poi, e la Corte Romana eran del partito Ghibellino); se i rimpatriati non avessero adempiuto a questa interessante formalità, fosser di nuovo pubblicamente banditi. Così saggia quanto necessaria misura operò, che tanto in questo, che ne’ successivi Comizi fosser ed ammesse moltissime petizioni de’ Guelfi esulanti dalla Patria, e che bramavano farvi ritorno; ed il prestato giuramento contribuì alla conservazione della pubblica quiete non ostante il loro ritorno. 30 giugno,ancora del 1388: Vennero sancite varie Leggi statutarie intorno ai malefici: l’omicidio fosse punito inesorabilmente con la pena di morte e la confisca de’ beni; chi uccida de mandato per ricevuta o promessa mercede, fosse trascinato a coda d’asino al luogo del patibolo. Vietato a chicchessia il portare armi per la città concesso soltanto ai Banderari di distinzione il portarle, dando però cauzione idonea di non abusarne; ed un tal permesso risultasse da patente da rilasciarsi dal Cancelliere Municipale,cui il portatore abilitato dovea recar sempre seco per sua giustificazione: gravissima era la pena inflitta ai contravventori. 30 settembre 1406: Trovò necessario il nostro Senato municipale nell’odier¬na seduta di rinnovare il bando altre fiate pubblicato; che tutti di parte Guelfa, che avesser volontariamente emigrato dalla Città, dovessero fra giorni otto ricondursi in patria con le loro famiglie, prestando però solenne giuramento sui santi Evangeli, di vivere, e mantenersi buoni e fedeli cittadini, osservatori del buon ordine, e del tranquillo reggimento municipale: ulterior disobbedienza al generoso invito della madre patria sarebbe stata punita con la formale espulsione dei renuenti dalla Città, e con la confisca del loro beni. 14 ottobre : Molti obbedirono di fatti; ma non pochi corrisposero col disprezzo. Tanta era l’ostinazione di quegl’irriconciliabili partiti! Di venti di costoro si vollero registrati i nomi in perenne ignominia in queste pubbliche pagine,i quali a loro volta disturbavano la tranquillità Cittadina ed inquietavano i pacifici fratelli. Che però furon definitivamente proclamati banditi e ribelli, vietendosi lo¬ro di approssimarsi alla Città oltre il raggio di dodici miglia di distanza: sorpresi entro questo, fosser catturati e puniti con pena capitale. Di questa severa quanto necessaria legge si affidò l’esecuzione e l’osservanza a scelta Commissione di sei probi Cittadini ed altri e tanti banderari.

DAL TERZO LIBRO DELLA STORIA DI TERNI DI ELIA ROSSI PASSAVANTI

Siamo nel tempo in cui –scrive la nostra fonte– le città ghibelline, fra cui Terni prendono animo a nuove conquiste. Le città guelfe erano sottosopra per la presenza degli stranieri,le ghibelline che seguivano i Colonna non avevano da essi nulla da temere. Terni poi ebbe il suo Vescovo,lo spagnolo Giovanni de Fonsalida, che aveva finito col prendere dimora nel castello di Braceiano. L’amicizia dei Colonna e del Vescovo ternano, disposero favorevolmente verso Terni il luogotenente del Re, Giovanni di Rieux, che, passandovi, poneva la città e gli abitanti sotto la sua protezione,mediante privilegio. I Ternani colsero l’occasione per risolvere,appoggiati dai francesi, dai Colonna e dai savelli, l’antichissima questione delle Terre Arnolfe, su cui Spoleto vantava diritti, ma non poteva in quel momento, occupato nella propria difesa proteggerle. Le Terre Arnofle. fra Spoleto e Terni, erano tornate, verso la fine del sec. XII, sotto la giurisdizione papale. Poi Spoleto –prosegue il Passavanti– le aveva occupate, adducendo concessioni fatte dal rettore del Ducato. Erano seguite lunghe lotte per questo fra il Papa e Spoleto e alla fine questa fu condannata a restituire le Terre Arnolfe alla Chiesa e a non molestare i Ternani, che avevano prese le armi pel Papa. In seguito gli Spoletini tentarono di riprendersele,ma nel 1548 Pio II le sottoponeva di nuovo alla Chiesa. Nel 1490 sorse per una questione di confini e di pedaggio una lite fra Terni e Cesi; fu nominato un arbitrato, ma il lodo non soddisfece Terni. I Ternani, quando nel 1494 ebbero l’aiuto francese, assalirono Cesi, la saccheggiarono e s’impadronirono della rocca. Alcuni cittadini di Cesi, radunati nella villa di S.Apollinnare nelle Terre Arnolfe sui primi del 1495, chiesero l’aiuto e la protezione di Spoleto che fu loro concessa a condizione che comunità e uomini di Cesi divenissero sudditi spoletini. Altri Cesani fuggiti a Roma, dal Palazzo Apostolico confermavano il patto di sottomissione. Così l’anno successivo, 1496, i Cesani poterono tornare a Cesi; ma con questo non cessarono le scorrerie ternane che anzi continuarono fino a che il cardinale Giovanni Borgia, Legato dell’Umbria, potè far concludere una pace temporanea fra le due contendenti. Pace –sottolinea lo storico ternano-; che già nel 1497 avvenivano piccoli combattimenti fra ternani e spoletini presso Montefranco e Strettura; e negli anni successivi non solo si apprestavano opere di difesa, ma Terni e Rieti stipulavano addirittura un trattato di alleanza offensiva e difensiva contro Spoleto. Pervenuta notizia di tutto ciò al Pontefice, egli , con un breve, ordinava al Vice Legato del ducato, Giovanni Olivieri, di far concludere un’immediata pace fa le due contendenti. A tale scopo il vice legato si recava a Terni e manifestava al Consiglio Generale il volere del Papa. Il Consiglio votò,unanime, la pace. Ma la concordia non potè durare,date le correnti opposte serpeggianti nei due popoli. Questi odii e guerre –evidenzia Elia Rossi Passavanti– pure non impedivano le manifestazioni artistiche. L’agitato anno 1497 ci fa vedere in Terni il pittore fulginàte Niccolò di Liberatore detto l’Alunno che dipingeva in S. Valentino uno stendardo raffigurante Cristo in Croce con ai piedi S.Francesco e S.Bernardino ora alla Pinacoteca Comunale di Terni. In quello stesso anno Terni aveva spedita una carovana di armi vestiario, denaro e altro ai soldati che servivano il Papa nell’accampamento di Bracciano; tale carovana fu sorpresa e derubata da una squadra delle milizie Orsini e dei Savelli guidata dai fratelli Manassei avversari dei Borgia. Altri incidenti del genere si verificarono finché, avendo assunto il governo del ducato Ludovico Borgia, Arcivescovo di Valenza, succeduto a un breve governatorato di Lucrezia, figlia del Pontefice, nel 15OO ripresero le lotte. Una compagnia di ventura, guidata da Troilio Savelli e da Giacomo di Rocca Sinibalda, d’accordo con armati del comune di Terni, nel settembre di detto anno assaliva Cesi e la saccheggiava. Gli invasori vennero in seguito scacciati perché in aiuto di Cesi accorsero gli armati del comune di Spoleto. Iniziate le ostilità, dopo vari combattimenti gli spoletini guidati da Bar tolomeo da Alviano, demolita la rocca di Colleluna, assediarono Terni. L’assedio per ordine del Papa fu tolto; ma poi, non cessando le incursioni, il Consiglio di Spoleto deliberò la distruzione di Terni; questa città, a quella minaccia,venne a patti. Promise che non avrebbe più molestato i cittadi¬ni di Cesi e ripose l’arme di Spoleto sulla porta del Castello. La pace completa però non venne se non quando Alessandro VI, per evitare ogni causa di discordia, sottopose Cesi e le Terre Arnolfe alla giurisdizione dei chierici della Camera Apostolica, ordinando che i 24 castelli che ne facevano parte, non fossero più soggetti ne a Terni ne a Spoleto, ma soltanto alla Camera Apostolica (1502). Mentre avvenivano questi suoi contrasti con le città vicine, Terni non viveva tranquilla la sua vita interire. Le riformanze dell’agosto 1501 lo manifestavano chiaro:”E’ ormai tempo di mutare vita e costumi di uomini improbi, affinchè la nostra città, dopo tante disgrazie, guerre e avversità sofferte per tanti anni, possa avere un po’ di pace”. A tale scopo si espulsero dalla città tutti i forestieri e vennero multati coloro che davano ricetto ad estranei. I colpiti erano avversari del Pontefice, seguaci del partito dei Colonna e dei Savell, nemici dei Borgia. Nello stesso partito militavano molti terna¬ni, tanto che il Papa aveva dichiarata la città ribelle,l’aveva multata e minacciata finanche di sterminio! Ad evitare guai peggiori, il Consiglio inviava ambasciatori plenipotenziari a Roma; e questi poterono ottenere da Alessandro VI uno scritto di perdono,il 24 agosto 1501. Due degli ambasciatori furono pochi giorni dopo incaricati dal Consiglio di trattare con Cesare Borgia per la protezione della città; Terni, all’uopo, rinunciava a quella di qualsiasi altro signore, e specialmente dei Colonna e dei Savalli. L’adozione di Cesare Borgia a protettore, però, non fu accolta bene da tutti i cittadini ternani; la città restò scissa in due correnti contrarie e non tardarono le dolorose conseguenze. Infatti nell’aprile 1503 vi scoppiarono tumulti tali che dovettero sospendersi la predicazione quaresimale e altre manifestazioni sacre, allora importantissime e di vita pubblica; il Consiglio Generale doveva anzi nominare una commissione col preciso scopo di calmare gli animi e distruggere ogni seme di discordia, ricorrendo, all’occorrenza a punizioni severe. Per il luglio di quell’anno,poi, giunta notizia che il Duca Valentino sarebbe passato per Terni con la sua corte, furono eletti deputati fra i cittadini e banderari perché lo accogliessero nel modo migliore ; e, qualora avesse mutato itinerario, fossero andati a rendergli omaggio nella città più vicina. Fu l’ultima volta che Terni ebbe a che fare col Valentino, perché la sua la sua stella -morto improvvisamente il 23 agosto Alessandro VI- tramontava poco dopo per sempre. Comunque –conclude Elia Rossi Passavanti– anche negli anni in cui l’Italia centrale era prostrata dinanzi all’inesorabile imperio del figlio di Alessandro VI, Terni rivendicava in una parte e non la peggiore dei suoi cittadini la fierezza delle libertà comunali secondo quello spirito,quasi promanante dal suo luogo e dalle sue mura, che l’aveva condotta che doveva condurla ancora verso la mèta di una più alta dignità civile ed italica.

Le chiese scomparse

Sono più di quaranta le chiese scomparse per vicissitudini storiche, per la guerra, per incuria; sono sparite costruzioni grandi e rappresentative, come S. Giovanni Decollato (nell’immagine a lato), che qualificavano l’intera città, ed altre grandi come una stanza e meno conosciute ma non per questo meno significative. II danno è stato di uguale entità perché l’intero tessuto urbano circostante perde un riferimento di particolare valore rappresentativo e il senso di compiutezza dovuto all’equilibrio delle sue varie parti.

Chiesa di San Giovanni Decollato

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Chiesa San Giovanni Decollato inizio lavori di demolizione

La Chiesa di S. Giovanni Decollato costruita alla fine del cinquecento in una delle posizioni più significative della Città, si avvale di una disposizione a pianta centraloe e di un particolare paramento facciata della mrtà del settecento. Elementi questi che ne fanno una delle chiese più interessanti e purtroppo meno capite, anche da parte dei pur attenti studiosi locali che avallano, nel 1920, il descreto di demolizione.

Da Francesco Angeloni: “Conviene ora fare di colà.ritorno al sinistro lato della principale, già mentovata piazza, dove l’altro rione degli Amingoni ha suo principio, e vèdevisi eretta da pie ele-mosine la moderna ovata chiesa con sua cupola al precur-sore di Cristo Giovanni Battista; dove stanno confrati, col titolo di Misericordia, e con istituto di Confortare i con-dannati a morte e seppellirli: avendo da Clemente XIII in-dulto di annualmente liberare un capitale bandito’dalie prigioni: e più cappellani vi frequentano gli uffici! divini“.

San Paolo di Galleto (monastero)

San Paolo di Galleto. Nell’area poi occupata dal Lanificio, dallo Jutificio e dalla Fabbrica d’Armi sorgeva il monastero voluto da S. Chiara per le compagne clarisse, eretto probabilmente intorno alla metà del sec. XIII. Divenuto ben presto ricco e potente per lasciti e donazioni di terre e dì case, fu dotato da Nicolo IV e Bonifacio IX (brevi del 13 febbraio 1291 e 10 gennaio 1393) di speciali indulgenze concesse a tutti i fedeli che il lunedì di Pasqua si recassero a visitarlo. Il monastero, soppresso nel 1458 dal vescovo Francesco Coppini per lo scarso numero e la dissolutezza delle monache, fu concesso in commenda al cardinale Bessarione e da questi agli Agostiniani di San Pietro. Le donazioni annesse passarono più tardi (1473) alla mensa vescovile di Terni. Gli arredi furono invece divisi fra le chiese, di San Francesco, San Pietro e San Giovanni Decollato. Nel 1554, infine, furono definitivamente soppressi chiesa e convento; la mensa vescovile attivò nel complesso ormai diruto due macine, una da grano e una da olio, e due cartiere, ‘ utilizzando l’acqua del Sersimone e, in seguito, del Raggio Nuovo. Non si posseggono notizie sulla struttura del complesso; per certo si sa che nella zona si svolgeva una fiera il lunedì dì Pasqua. Nel sec. XV questa fiera era celebratissima: la ‘plaga di San Paolo’ si gremiva di commercianti, cortei e processioni con autorità, maestranze delle arti e confraternite laiche. C’erano corse al fantino e la cerimonia del ‘pallio’ ai vincitori assumeva i caratteri di una solennità cittadina. Importanti erano le concessioni dì franchigie. La tradizione dell’antica fiera di San Paolo si mantenne per lungo tempo e solamente nel 1603 fu trasferita presso il Cassero, nelle vicinanze di Porta Romana e posta sotto il presidio della confraternita del Santissimo Sacramento, La “plaga di San Paolo” fu teatro di una battaglia nel 1527. La città di Terni, salvatasi da un primo attacco delle truppe dì Carlo V in marcia verso Roma, dopo il Sacco, dovette accoglierne i capi con alcune torme di sbandati. Dopo aver contrattato ‘con denaro sonante’ la tranquillità della città, all’improvviso l’esercito ternano venne aggredito nei pressi del monastero da truppe guidate dal marchese di Saluzzo e da Federico Bozolo. Gravi furono le perdite dei ternani, comandati da Pier Maria Rossi e Alessandro Vitelli, Narni ebbe sorte peggiore, uscendo assai danneggiata, oltre che saccheggiata, dall’attacco dei lanzichenecchi.

IL TREMENDO FLAGELLO DE’ TREMUOTI

1703, 10 Febbraio

II tremendo flagello de’tremuoti portava spavento in quest’epoca nella città nostra: la più parte delle solite e tranquille abitazioni erano state ab-bandonate dagli atterriti Cittadini cercando più sicuro asilo nelle piazze, in mezzo ai campi; e per giunta in tanta sventura non mancavano i malvagi proletari di profittare (come d’ordinario avviene) dell’abbandono, dello sco-raggiamento pubblico per spogliare le deserte case. A tanto male il Magi-strato, il provvido Consiglio non potea restarsi inoperoso indolente; che anzi furon volte le sue sollecitudini alla sicurezza pubblica. Si dessero due fra i più animosi ed onesti Cittadini per ciascun Rione, che si dissero Caporioni: si prescrisse che un drappello di 32 militi stesse sempre in servigio attivo sotto le armi, e perlustrasse di continuo la città di notte e di giorno diviso in pattuglie, e sorvegliasse specialmente la condotta di persone oziose e di cattivo affare. In oltre si pregarono i respettivi Potestà delle vicine Terre di Collestatte o Torrorsina a tener chiusi o’ guardati i loro Ponti sul Nera, perché fosse vietato il passaggio a fuorusciti: all’istesso fine i Sig. Castelli tenessero rinserrato il loro ponte di Valle. Queste ed altre utili provvidenze si adottarono allora come richiedea il bisogno, energicamente secondate dal-l’autorità dell’ottimo Monsignor Governatore. Né ciò era tutto: i più fiduciati in religioso sentire suggerivano, insiste-vano con fervore si ricorresse all’ajuto celeste, impotenti essendo i mezzi umani contro quella disavventura. Si intercedesse con animate preci dalla Misericordia divina la cessazione del tremendo flagello; a special Protettore si invocasse i miracoloso S. Francesco Borgia, fatto voto solenne di cele-brarne in ogni anno la sua festività nel suo altare entro la chiesa di S. Lucia ufficiata dai PP. Gesuiti, ove gli si facesse oblazione di sei libre di cera lavorata, assistendo ivi il Magistrato alla messa solenne. Essendo prossima inoltre la ricorrenza della festa del glorioso S. Valentino, si prendessero concerti con Monsignor Vescovo per far ordinare per tutta la città e Diocesi l’Eucaristica comunione generale nella sua chiesa Cattedrale, pubblicandone invitò sacro: ivi si recasse in solenne Processione di penitenza il clero, il Magistrato, Monsignor Governatore, i capi d’arte quali verrebber seguiti dal devoto popolo Ternano.

25 Marzo

Né dava tregua ancora cotesta pubblica calamità; perché si ebbe ricorso alla protezione immancabile della Vergine Immacolata, la cui intercessione valse efficacemente (e io si rammentava con entusiasmo con fiducia nella pubblica assemblea consiliare) a salvar questa città dal flagello della peste negli anni andati, e se ne adduceva in prova il voto solenne fatto in quella luttuosa calamità dal devoto Municipio. Indi si concludea si rinnovasse il voto; nel di delia sua stessa festività il Magistrato prò tempore si recasse sempre a piedi nella chiesa del convento delle grazie, ove si venera la sua prodigiosa Irnagine, ad assistere alla S. Messa solenne con la solita oblazione di cera: il Popolo, i Consoli dell’arti lo seguissero processionalmente come si solca nella solenne festività della Ssma Assunta. Tutti porgessero preci al­l’Altissimo, onde ad intercessione della gran Madre Vergine liberasse la desolata città da tanta sventura. Nell’esposizione de’narrati fatti ci siamo serviti quasi alla lettera del dettato espresso nelle nostre riformanze, nulla aggiuntovi del nostro, per dare un saggio del religioso sentire della nostra città nella discorsa epoca.
Fino al principio di Agosto di quest’anno la terra si fu in continuo
scuotimento: molte case crollarono, ed i più saldi fabricati rimasero scassi nati ed enormemente danneggiati. Perocché troviamo che nel 22 Aprile nella
necessità di doversi radunare il Consiglio fu questo convocato nel piazzale
presso l’antica casa Mazzitelli nel rione Castello.

Nel 13 maggio durante tuttora la terribile sciagura il Municipal Comizio decretò fosse co strutta per residenza di Monsignor Governatore una casa di legnò, ove tener
potesse le sue ordinarie udienze così nel 25 Luglio lo stesso Consiglio dovè congregarsi nel prefato piazzale della famiglia Mazzitelli ed un simile ripiego dovè adottarsi nell’assemblea del 4 Agosto successivo, o perché non fosse del tutto cessata quella pubblica sventura, o perché fosse pericolante la Residenza Priorale.

15 Ottobre 1783

tremenda sciagura portava lo squallore per tutta la città nostra; il terribile flagello de’tremuoti; e di già se ne erano risentiti incalcolabili danni: I caseggiati anco i più solidi, rovinati non davan più asilo agii atter¬riti Cittadini; l’aperta Campagna, comecché in continuo scuotimento, som¬ministrava affligente ricovero ai fuggenti, e poche tende ponevano al coperto i più agiati; molti all’aria aperta esposti all’intemperie di un ciclo inclemente e tenebroso. Cessato il commercio, tacente ogni pubblico affare, ogni privato negozio e perfino la coltura de’campi, anima della nostra vita Civile. Si sup¬plicava il superior Governo per decreto del Senato in questa tornata per un qualche sussidio, almeno per la classe indigente, in cui disgraziatamente si comprendeano gli artieri tutti, privi delle risorse delle proprie braccia per assoluta mancanza degli usati lavori: ne venne interessato l’Emo Negroni Protettore, l’esimio Prelato Carrara, ascritto come già notammo alla cittadinanza Ternana; ma furon vani i loro buoni offici od insufficienti a tanta pubblica bisogna, quindi il consiglio istesso si trovò nella necessità di votare la somma di scudi 200 per distribuirla ai poveri.

27 Decembre 1783

Per più di un anno si tenne in spaventoso movimento la terra in questa nostra contrada; cessò al fine e si dava opera a ripararne i danni, le rovine: nel mentre che il patrio religioso Comizio levava la mente ed il cuore alla Clemenza divina per un solenne rendimento di grazie pel cessato flagello votò un annuo solenne triduo in onore della Vergine Santissima del Rosario in perenne rendimento di grazie: precedesse questo al dì della sua festività, ed il Magistrato assistesse a questo in forma pubblica, ed alla messa solenne nel dì della festa nella chiesa Cattedrale.) Nel frattempo la gentile e pia dama Fulvia Costantini, maritata in Liberati di Ascoli, avea rimesso in prezioso dono alla città nostra una Reliquia autenticata nelle consuete forme Ecclesiastiche del glorioso S. Emidio pro-tettore di quella città contro il flagello de’tremuoti, per promuoverne anco fra noi la devozione. Si accolse con religiosa esultanza il sacro donativo, e per decreto consiliare fu proclamato quel Santo Vescovo e Martire Comprotettore della città nostra. Si fece costruire un decente reliquiario per custodirvi quelle S. Reliquie, che vennero poste a pubblica venerazione nella Chiesa Cattedrale e custodite in luogo rinserrato a doppia chiave l’una da ritenersi dal Magistrato, altra dalla Deputazione istituita per la celebrazione della sua festa, col tabellato assegnamento di scudi quindici.

braviopianeta

28 luglio 1387

Le Antiche riformante (delibere,ndr) municipali, raccolte e pubblicate dal papignese Lodovico Silvestri (1798 – 1863), dicono che “Si venne finalmente all’ elezione del nuovo Podestà; onde crediamo dover dar cenno di questa,la quale cadde in persona di Raniero di Ugolinuccio da Baschi“.

Bene, il “cenno” dell’elezione e i compiti a cui doveva far fronte ser Raniero durante il suo mandato li vedremo poi. Intanto riferiamo che “Il salario per l’intero semestre del Podestà, e di tutti gli altri a lui addetti, era fissato in settecento fiorino d’oro della valuta di quattro lire e soldi nove per fiorino.

Da questo dovean detrarsi alcune regalie dovute per massima ai Magnifici Signori Priori pro tempore e suo Cancelliere,il quale rilasciava la patente: ossia ai primi un drappo di seta o velluto del costo non maggiore di cinque fiorini, che veniva destinato per il Palio della corsa de’ cavalli, che aveva luogo nella seconda festa e fiera di Pasqua a “San Paolo di Galleto”. Ed eccoci alla “Corsa al Bravio” , Sulla quale, ci dilungheremo in seguito, preferendo ora andare alla ricerca del luogo e della consistenza del monastero delle monache clarisse di Galleto scomparse ormai da secoli. E continuiamo ad “appoggiarci” a Lodovico Silvestri, il quale, ciceronizzando sulla Terni che fu scrive fra l’ altro: ” ci è d’uopo rientrare nella città , risalire sulla piazza maggiore, e facendo camino per la Nazionale interna (oggi via Roma, ndr) nella via detta dei fondachi fino alla Piazza Corona, a destra di questa si presenta la Porta San Giovanni, da dove si sorte in una ridentissima contrada, che nominiamo Galleto: tutta Orti tutta irrigua tutta bella per rigogliosa vegetazione di viti frutta di ogni specie”. Che la zona in questione fosse una specie di Eden non serve sottolinearlo, mentre va detto che il monastero delle clarisse insisteva nell’area poi occupata dai Lanificio, dallo Iutificio e dalla Fabbrica d’Armi.

Quanto alla consistenza economica dell’antico luogo di culto è ancora il Silvestri a farcelo intuire. Infatti:….”sulle mole olearie il Municipio aveva imposto un dazio per l’olio che ne sortiva per vendita; si pretese assoggettare a questo anche il molino della mensa di San Paolo di Galleto. Appena ciò si riseppe da Monsignor Vescovo,allora Gian Jacopo Barba,che col mezzo del suo Vicario Generale Venanzo Cellini Canonico Ravennane spedì un monitorio con ninaccia di anatema, se di qualunque imposta o balzello venisse gravato quel suo molino posto nel Monastero di San Paolo, ossia entro le mura del Monastero“. Era il 15 febbraio 1515.

Durante lo Scisma d’Occidente Bonifacio IX, “malsicuro si tenendo per fino in Roma era spesso astretto di andar quasi ramingo dall’una all’altra Città soggette alla Santa Sede ed a se più fedeli Giunse infatti avviso al nostro Municipio, che Egli si era determinato di cercar ricovero in questa Città. Il patrio Senato accolse con trasporto un tale annunzio, ed ordinò fossero prese le più energiche disposizioni per accogliere ed onorare l’augusto perseguitato ospite. Vennero prescelti dodici Cittadini ed altri e tanti Banderari per riceverlo con quella partìcolar divozione propria della Città verso la Santa Sede, per destinargli conveniente abitazione e trattarlo come si conveniva al sommo Gerarca della cristianità; qualche tempo s’intertenne Egli in Terni da dove passò a Perugia il perché troviamo riportato in questa pagina del Protocollo un suo Breve co’ quale concede alla Chiesa del Monastero delle Monache Clarisse in San Paolo di Galleto l’indulgenza plenaria e la remissione di tutti i peccati da lucrarsi come nella Chiesa degli Angeli presso Assisi, da tutti i fedeli, i quali nella Festa del Lunedì di Pasqua(giorno della fiera e della “Corsa al Bravio”ndr) si recassero a visitarla, il qual Breve è datato da Perugia X. Kal. Juanuari Anni IV 1393”.

Ricordato che continuiamo ad andare per i luoghi della medievale festa e fiera di San Paolo di Galleto generatrice della “Corsa al Bravio”, restiamo sul monastero delle clarisse, verso il quale la considerazione papale non fu espressa dal solo Bonifacio IX con il Breve d I indulgenza plenaria del 1393. Infatti,Lodovico Silvestri nelle Antiche riformanze della città scrive: “Prima del rammentato Breve del IX Bonifacio alla stessa Chiesa delle Clarisse di San Paolo dal Pontefice Nicolò IV era stata concessa la indulgenza di un anno e giorni 40 per le’ feste di San Paolo Apostolo, Santo Stefano Protomartire e di Santa Chiara istitutrice di quell’ordine Monastico , con altro Breve del 13 Febbrajo 1291 da che quell’antichissimo monastero fosse uno de’ primi eretti da quella Eroina dell’ordine Serafico, la quale passò nell2 la Gloria de’ Santi nel 1251 sotto il Pontificato di Innocenzo IV che la visitò nel suo letto di morte in Assisi nella prima casa monastica in San Damiano “. E ora, detto che a Terni della chiesa eretta nel 1715 alla santa rimane il ricordo di Vico Santa Chiara, siamo alla metà del 1400. E torna il Silvestri: Intorno a quest’ epoca crediamo ragionevolmente farsi risalire la soppressione del Moniste ro delle Clarisse di San Paolo; né già per ispecial provvidenza addotta per questo, come viene da taluni ingiuriosamente supposto, ma per general massima stabilita per tutti i riguardi dalla sapienza de’ Pontefici “. Insomma San Paolo di Galleto fu “vi ttima” di una delle ricorrenti riforme vaticane. Mentre Elia Rossi Passavanti, nella sua Storia di Terni , ricordando che nel 1528,1552 e 1553 la città ebbe bisogno di nuove artiglierie a difesa delle rocche e delle torri da parte della milizia comunale, ci dà un’altra importante notizia e Scrivendo: “E metallo per la fusione di tali bellici ordigni lo fornirono perfino le campane che tante volte avevano squillato pacificamente dall’alto della torre campanaria di San’ Paolo di Galleto (presso cui, in occasione di una straordinaria indulgenza concessa da Bonifacio IX nel I393, si teneva ogni anno un’affollata fiera). O quando il Vescovo se ne disfece nell’anno 1554. E già prima di questa data ci fu una sorta di braccio di ferro tra i frati di San Pietro e il Comune per i tanti beni appartenuti a quelle monache clarisse. Nove giugno 1465, Lodovico Silvestri: “Questi Reverendissimi Padri Agostiniani di San Pietro pretendeano ritenersi tutti gli effetti mobili, ed arredi sacri non che disporre delle rendite dei terreni pertinenti al già soppresso monistero e chiesa di San Paolo di Galleto col pretesto di doverne assumere la custodia autorizzati da lettera del Cardinal Greco Arcivescovo di Nicea, al quale per Breve del III Callisto del 15 Febbraro 1458 era stato ceduto quel luogo con tutti i fondi, stabili, adjacenze e quant’altro ivi si rinveniva per commenda o beneficio ecclesistico . Il Consiglio (comunale,ndr) ed il Magistrato energicamente si opposero alle loro pretenzioni, volendo con più equità, che i sacri arredi ed alcuni mobili fossero divisi e concessi a profitto anco delle altre chiese di San Francesco de’ Minori Conventuali e di San Giovanni di Piazza (poi San Giovannino, che poggia sopra i resti di un edificio romano,ndr), e ne implorava gli opportuni permessi dalla suprema podestà ecclesiastica : ma frattanto decretava, si dessero in consegna i menzionati effetti a vari ragguardevoli cittadini”. Le Antiche riformanze della città di Terni ci dicono pure che il 6 agosto 1458 ” avea cessato di vivere Calisto III dopo il breve Pontificato di anni tre e mesi quattro e Compiute le solenni esequie si adunò in conclave il Sacro Collegio de’ Cardinali, ed in men di tre giorni fu innalzato all’Apostolico seggio Elia Silvio Piccolomini Senese, assumendo il nome di Pio II. Si ordinarono dai congregati di credenza pubbliche esultanze,e la pronta trasmissione di oratori per umigliargli sinceri tributi di fedeltà e di devozione”, da parte dei ternani. “Pio II fu consacrato il 3 novembre successivo”.

Torniamo al 28 luglio 1387

Per “dar cenno” dell’elezione di Raniero di Ugolinuccio da Baschi a Podestà di Terni, il cui mandato durava sei mesi. Ed eccoci di nuovo alle Antiche riformante (delibere) municipali,raccolte per i posteri da Lodovico Silvestri. Per la nomina dell’importante figura amministrativa “la scelta fra i concorrenti veniva rimessa al giudizio di una Commissione composta di 12 ragguardevoli persone,parte Cittadini(nobili,ndr),parte Banderari (popolari,ndr),nominata dal generai Comizio: dalla data stabilita 29 del citato mese paese fu indritta all’Eletto lettera di partecipazione dell’onorifica sua destinazione,nella quale elogiati largamente in prima gli eccellenti suoi requisiti, è pregato ad accettare alacremente il geloso e nobile ministero, servando le solite condizioni patti oneri ed onorificenze inerenti ad esso; firmato il dispaccio “Priores Populi Civitatis Interarmis”. Dopo ciò,avuta in risposta la sua accettazione,il Canelliere Municipale Pietro da Rieti gli spediva lettera patente, in cui son noverati i doveri tutti e le prescrizioni da osservarsi scrupolosamente in officio, quali esporrò in cornpendio, onde forarsi un idea più chiara di quanto venne superiormente esposto. Ritener dovesse presso dì se un Giudice idoneo onesto laureato in utrocque per la risoluzione e spedizione sollecita della Cause tutte Civili e Criminali; avesse pur ance un Socio o come direm’oggi un Assessore istruito ed esperto; quattro Notai, l’uno per gli atti de Malefici, altro per quelli del danno dato, il terzo per la Polizia in¬terna della città, il quarto per straordinari; quattro servi, domicilli; venti famuli –birri- atti alle armi; un cuoco; quattro soldati a cavallo ; non assoldasse veruno agli accennati impieghi f se non proveniente e nativo da luoghi lontani dalla Città nostra non meno di venti miglia, e che non fosse stato cacciato dall’officio altrove; abbia continuata e personale residenza in Città di giorno e di notte,né possa esentarsene, neppur anco per brevr’ora senza speciale e non facile permesso del Magistrato, sanzionato da voto Consiliare; due volte in ciascun mese dia conto o faccia mostra de’ suoi subalterni impiegati e familiari, e dell’esercizio del suo officiosa richiesta de’ Magnifici Signori Priori. Del Salario in fuori e de’ soliti emolumenti del suo impiego,concessi dalle leggi staturie,niun’al tra mercede mai o donativo per qualsivoglia titolo, per special benemerenza od amistanza, ricever possa dal Municipio, o da private persone; a suo carico tutte le spese d’officio per carta penne inchiostro ed altre; personalmente sia responsabile de’ suoi impiegati subalterni; eserciti l’impiego ed amministri da sé stesso la giustiziarne mai per interposta persona a mezzo di verun sostituto od altri facente funzione. Fra giorni otto dopo il cessato incarico, debba rendere esatto conto della sua gestione e de’ suoi impiegati, lo che non si sarebbe potuto pretendere durante quello” . Bene, ripetuto che dallo stipendio settecento fiorini d’oro per i sei mesi di podesteria Radierò di Ugolinuccio da Baschi doveva pure spenderne cinque per il “Bravio della corsa de’ cavalli”, vediamo la lettera con la quale accettò “il geloso e nobile ministero”. Fu resa pubblica nella seduta consiliare dell’agosto di quel 1387″: Magnifici et potenti signori priori de la cita et del populo di Terra, nj honorivoli amici carissimi – Honorivoli amici carissimi per che la mia ententione ene sempre el fine desidero che sia meglio chel principio lo so contento de venire alloficio de la potèsteria de la cita vostra con quilli pacti che ne la lectione la quale mavete mandata se contene. Questo chio domandava era per li temporali forti et per le spese che tucto di concurro, ma avendo respecto ala rare amicitia vostra io tengo più caro voy che io no tengo el denari. Proferendome sempre al vostri piaceri. Datura a Viterbii adi VII de augusti – Rayneri de Ugolinuccio da Baschi”. E dopo il monastero di Sari Paolo di Galleto e il podestà di Terni, la “Corsa al Bravio”.

LA FESTA DELL’ASSUNTA E LA GARA DELLA BALESTRA

L’altra festa che nel Quattrocento risulta dai documenti celebrata con manifestazioni particolarmente solenni è la festa dell’Assunta.

In questa occasione venivano eletti i consoli e i notai delle Arti che poi dove vano sfilare in processione per le vie della città il giorno di Ferragosto.

Il Comune rinnovava i vestiti verdi e rossi di famuli, bayli e trombettieri e, nel 1453, su proposta di Angelo Giocosi, deliberò una gara delle balestre con i seguenti regolamenti: “In onore della festa della gloriosa Vergine Maria, per decoro di questa città e infine per incoraggiare il popolo ad acquistare e possedere le balestre, che sono molto utili e necessarie per la difesa della nostra città, ogni anno nella festa della predetta Vergine Maria del mese di agosto, nella piazza delle colonne, a spese del comune, per la gara del tiro con la balestra sarà messa in palio una balestra, del valore di due fiorini d’oro, che verrà assegnata a chi avrà tirato la freccia più vicina al bersaglio. Al secondo, che dopo il primo, avrà tirato la freccia più vicina al bersaglio, verrà data una faretra con le frecce con le quali si sarà gareggiato. Non possono partecipare al tiro con la balestra coloro che non sono ternani o del loro comitato o abitanti del distretto è tutti sono obbligati a giurare che le balestre con le quali gareggiano sono proprie.

Dichiarato ciò, qualora gareggino con una balestra avuta in prestito, siano squalificati, né possa essere assegnata la balestra o la faretra con le frecce ad un forestiero non abitante o a chi tiri con una balestra prestata. E la balestra ottenuta in premio così gareggiando non possa essere venduta prima di dieci anni a partire da questo, sotto la pena di 25 fiorini d’oro per chiunque contravvenga”.

L’insistenza sulla partecipazione riservata esclusivamente agli abitanti e sulla proprietà della balestra è chiaro indice della volontà della magistratura comunale di incoraggiare la cittadinanza all’esercizio delle armi e all’autodifesa in un periodo che faceva temere per l’incolumità dei confini e per i frequenti passaggi di truppe.

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Relazione sulla morte di Angelo Crivelli detto Epifanio 1840

Relazione dettagliata di quanto disse e operò Angelo Crivelli sunnomato Epifanio dal momento in cui gli fu intimata la sentenza di morte fino all’ora della esecuzione.

Il giorno 7 agosto 1840 alle ore 4 pomeridiane sì fece scendere dalla segreta al corridore posto a pian terreno delle carceri il detenuto Angelo Crivelli sopracchiamato Epifanio di Terni, e dal Cursore Giuseppe Jacobelli gli fu notificata la Decisione del Sapremo Tribunale della S. Consulta con la quale venne il ricorso da lui interposto invia di revisione, e che per conseguenza la mattina successiva alle ore sei antimeridiane sarebbe stato decapitato nella pubblica piazza della suddetta Città. Compiuto appena un tale atto fu abbracciato dai confortatori, nelle braccia dei quali cadde quasi svenuto senza proferire parola, e subito venne condotto all’attigua cappella. Vide Egli presenti alla ripetuta intimazione alcuni Bersaglieri i quali non ancora erano tornati dalle carceri, e pronunciò alcune invettive contro i medesimi chiedendo che partissero, nel che venne subito compiaciuto; ma dettegli alcune parole di Religione dai confortatori sì acquietò baciando l’Immagine di Maria SS.ma ed il Crocifisso che gli era staro posto nelle mani. Proruppe in quel mentre in un dirottissimo pianto, e calmatosi alquanto sì adagiò sopra un Sofà. Chiese poi di rivedere i detenuto Celestino Scorsolìni il quale gii era stato compagno nella segreta, come pure domandò di suo Padre, che gli fu detto essere partito da Terni a pro di sollevarsi alquanto, e che gli mandava la sua Benedizione, e qui di bel nuovo pianse.

Alle ore 4 dopo la recita dì varie altre orazioni fu detto il S. Rosario, ed egli sceso dal canapè lo recitò Ritto in ginocchio.

Alle ore 5 gli fu presentato il detenuto Scorsolini, cui diede un bacio, dicendogli prega Iddio per me, che io Lo pregherò per te, e gli donò il suo cappello, ed un paio di calzoni, dopo ciò domandò che il secondino Michele Bonarota gli portasse un bicchiere dì acqua, il quale avvicinatoglisi, lo baciò replicata mente piangendo.

Alle ore 5 avendo inteso suonare la campana del Duomo per la [..,] dell’Assunta pregò gli sì facessero dire tre Ave Marie prima della Benedizione e fu assicurato che già erasi a ciò pensato. Fino alle ore 8 furono recitate dai confortatori varie orazioni e fatti dei fervorini, i quali non solo ascoltava con la massima attenzione e rassegnazione, ma anzi Egli stesso esternava il desiderio di udirli spesso pregando i Padri che mai lo avessero abbandonalo. Raccomandò pure ai vari fratelli di S. Gio. Decollato i quali per turno venivano ad assisterlo, di non dimenticare il suo vecchio e misero genitore. In quei frattempo la sud.a Coufraternita gli fece sapere che aveva fino a quel momento [raccolto] scudi. 9 di elemosine, onde sentire come volesse disporre, ed Egli disse che la metà se ne pagasse alla sua sorella Agata Crivelli moglie dì Felice detto la Vecchia Sagrestano dello Spirito Santo, e l’altra metà si fosse impiegata in tanti suffragi per l’anima sua, e per le anime Sante del Purgatorio. Alle ore 8 gli fu presentato un ristoro, ma approssimatolo alla bocca, lo ricusò, e dopo pochi momenti si coricò, e prese sonno,

Alle ore 9 si destò, e gli fu dato un poco di malaga con del pane di spagna, che prese e di poi tornò ad addormentarsi.

Alle ore 11 si risvegliò, ed avendo inteso alcuni colpi di martello, chiese cosa si facesse cui fu risposto, che non era niente, ma Egli replicò voler id quello che si fa. Allora i confortatori gli dissero che non era quello il momento di pensare ad altro che alla salute dell’anima, e che confidasse nella Misericordia del Signore, ed Egli sopraggiunse che in Lui solo sperava e si acquietò.

Alle ore 11 i confortatori lo interpellarono se volesse, che uno di loro avesse chiesto sopra il palco perdono al popolo per Esso, ed Egli rispose che da se voleva adempiere ad un tale dovere, che anzi glielo avessero rammentato.

Alle ore 1 antimeridiane del giorno 8 fu detta la prima messa nella Confortaria alla quale assistette sempre in ginocchio con la massima devozione, e dopo la recita degli atti di Fede, Speranza, Carità, e Contrizione e di altre preci, gli fu apprestato il S. Viatico, nel quale momento appalesò prova non dubbia di vero pentimento, ed un ardente desiderio di ricevere il Pane Eucaristico. Quindi fu detta la seconda messa, dipoi la terza e finalmente la quarta dai quattro confortatori, nella quale avendo esternato il desiderio di communicarsi nuovamente, gli fu apprestato per la seconda volta il S. Viatico. Anche davanti a questo Incruento Sacrifizio volle rimanere sempre in ginocchio e di più volle stare scalzo e scalzo accostarsi all’Altare, dicendo che bramava imitare il Nostro Signor Gesù Cristo mentre andava al Calvario.

Dipoi essendo le ore 3 dispose che l’elemosina che si sarebbe ricavata nella giornata fosse data alla sua sorella Marianna Crivelli, la quale dimora presso i comuni Genitori.

Alle ore 3 essendosi rammentato di tre suoi debiti uno di baj. 95 con Francesco Piacenti, l’altro di baj. 30 con Candida Belli e l’ultimo di baj. 22 con Cecilia la Bettoliera, dispose che le sud.e somme ascendenti a s [scudi] 1:47 fossero pagate ai ricordati Individui, prelevandole dall’elemosine che si sarebbero incassate, le quali, come si è detto, dovevano passarsi alla citata sua sorella Marianna. Dopo ciò gli fu impartita la Benedizione Papale in articulo mortis nel quale momento esternò di volere andare scalzo al patibolo.

Giunte le 6 antimeridiane ora destinata per la esecuzione della sentenza scese nella confortaria il Mastro di Giustizia, e mentre gli faceva la consueta legatura ripetè l’atto di contrizione con varie giaculatorie e pregò di bel nuovo i confortatori che per amore di Dio non lo abbandonassero in quell’estremo momento, ed in pari tempo volle baciare il succitato Mastro di Giustizia. Dopo tutto ciò sortì dalle carceri in mezzo ai confortatori e volle fare tutto il tratto di strada fino al patibolo camminando con le ginocchia. Salito finalmente sul palco ricevette la Benedizione del SS.mo che stava esposto sulla chiesa di S. Giovanni Decollato, e chiesto perdono al Popolo per bocca di un confortatore, mentre la sua voce era divenuta così esile, che più non si udiva, raccomandò alla Gioventù di non prendere esempio da Lui, e di fuggire i cattivi compagni, dopo che s’inginocchiò sotto alla Mannaja, e fu decapitato con esemplare edificazione di tutti.

Una tanto singolare conversione fece rimanere attoniti chichesia, e nessuno di quelli che lo videro così docile, e rassegnato potè trattenere le lacrime, e non inalzare preci all’Altissimo per Lui, benché di preghiere più non avesse bisogno, mentre da Santo morì.

Su fonti che di volta in volta citeremo, andremo per le vicende di un tempo che fu. Iniziando dalle fazioni politiche.

Era il 1387, e Terni, già “appellata antichissima nobilissima ripiena di Popolo onorato, e d’uomini bellicosi, sicché fra i soldati d’Italia tengano il primo posto, era in quest’epoca nel generale coscenziosamente di parte Ghibellina, avversando alla dominazione straniera, comecché fosse stata in antecedenza,e con vario avvicendamento la fazione Guelfa; come viceversa per questa si teneva la Città di Narni. Da ciò fiere discordie ed emulazioni armate fra entrambi questi luoghi,le quali sembra cessarono dopo una decisiva disfatta toccata ai Narnesi nel dì 6 Dicembre 1381, sacro alla festa di S.Nicolò Vescovo”. Non ce ne vogliano gli amici narnesi, e quelli a noi più cari. Ma il sembra alla “loro” disfatta da parte “nostra”, lo toglie di mezzo Francesco Angeloni nella sua Storia di Terni. Con …. “né le solite contese fra Terni e Narni cessavano,che anzi con più accesa guerra fra quelle città combattendosi, avvenne che nel 6 decembre 1381 festività di san Nicolò, notabile vittoria riportarono Ternani degli avver­sari Narnesi, i quali di fresco avevano tentato di abbattere per tradimento Terni e disperderne i cittadini, che seguivano la parte ghibellina.

Terni vinti i Narnesi il 6 dicembre 1381″ Dopo ciò,restituita in parte la pubblica tranquillità, e ritornata al Città nel suo antico ordine e Costumanze, continuò come prima a reggersi a Comune, banditi i Guelfi che appellava “Tiranni”. E le Antiche riformanze proseguono dicendo che la città “Si governava con leggi proprie, col suo statuto, co’ suoi Magistrati,con le Milizie proprie: aveva le Rocche di Colleluna,di Monte S.Angelo,del Castello di Papigno,di S.Zenone, di S.Giovanni di Pedélmonte, come validi propugnacoli della città e suo territorio:vi tene­va e stipendiava armigeri,vi eleggeva a seme­stre i rispettivi Castellani, le muniva di vettovaglie e di ogni genere d’armi e di approvvigionamenti allora in uso”. Ancora: “Nel modo istesso fortificava e presidiava le sue mura cittadine e le robuste Torri, che in gran copia le coronovano a più valida difesa”. Il Podestà durava in carica sei mesi e doveva essere forestiero,”estraneo affatto a qualunque famiglia della Città, onde averlo imparziale, insignite di Diploma Dottorale. Aveva quattro notai, Hed altri officiali di giustizia”. Dovevano rendere conto al Podestà, “con solenne cerimonia che era detta Monstra Potestatis; e dove si fosse rinvenuta mancanza d’Officio, ed inesattezza qualvnque, eran puniti senza riguardi o con multa pecunaria, od anco con la espulsione da quel geloso Ministero in caso di colpa grave”.

le organizzazione del potere Comunale a Terni

Ora, per la cronaca lasciata da “Filippo Merlino Ternno”, riportata anche dall’Angeloni, diremo di alcune calamità (lotte fra guelfi e ghibellini, terremoti) che afflissero la città nella metà del ‘300. “L’anno del Signore 1349 il giorno 1° di gennaro i Ghibellini di Terni cacciarono dalla città i Guelfi, che stettero fuori fino ai quattordici del mese di Giugno del detto anno, Nel detto giorno 14 Giugno rientrarono i Guelfi in Terni, eccettuati Pietro Giannuzio, Genese Mattiucccio Lucio del signo Angelo, ed io Merlino di Filippo che rimanemmo fuori e stemmo nei confini fino al 24 di Settembre del detto anno, nel quale rientrammo in Città“. Ma siccome le disgrazie non vengono mai sole, ecco che la terra si mette a tremare. “Nell’anno del Signore 1349 furono in alcune parti della Città di Terni molti terremuoti, e cominciarono nel mese di Settembre, e durarono fino alla metà del mese di Novembre”. Una nota a pié di pagina delle Antiche riformanze, a proposito delle vicende del 1349 dicono che “il Municipio Ternano combattè colle sue armi, e debellò le Genti del Capitano del Patrimonio Vico da S.Germano presso Colleluna, ed i Ghibellini cacciarono dalla Città i Guelfi a mano armata”. Colleluna scrive l’Angeloni “era una forte rocca di Terni, circa due miglia lontano dalla città, verso il confine di Cesi, San Gemnie ed Acquasparta”. Anche se il rientro in città di tutti i guelfi il 24 settembre 1349 farebbe pensare ad una pace raggiunta con la fazione ghibellina, purtroppo così non fu . Perché troviamo scritto che iprimi quel giorno “espugnarono i Ghibellini”. Cosicché, meno. Di un anno dopo il “15 Agosto del 1350 di nuovo questi sussidiati da altri armati assoldati, respinsero i Guelfi, ne distrussero le Case e le Torri e così con sanguinoso avvicendamento si massacravano allora a furore i fratelli d’un istessa città e fors’anco d’una istessa famiglia. Quindi nuovi attacchi, nuove stragi civili, nuove vittorie brutte di fraterno sangue fino all’epoca che andiam discorrendo. Inanissimi tempi, che ci riempiono di raccapriccio e di Vergogna! “. Il potere civico a Terni era articolato “in due Consigli, l’uno detto Minore, di quarantotto individui, nominato di Cerna a cernendo, ovvero di Credenza, per la piena fiducia in essi risposta dalla pubblica opinione, o pel credito, in che, erano iniversalmennte tenuti , per la probità loro ed assennata esperienza; né mai l’intrigo o le basse speculazioni di vendetta o di egoismo vi raggranellava nelle elezioni di inetti,o di venali piaggiatori,avendosi in mira soltanto, nel comporre questo patrio Senato, il pubblico interesse. Que’ saggi che dovean prescegliersi, per metà si traevano dall’ardine de’ Cittadini (nobili, ndr), per resto da quello de’ Banderari” (popolani ,ndr).

Le Antiche riformanze della città di Terni del papignese Lodovico Silvestri specificano l’estrazione sociale dei reggi tori della città al tempo di cui stiamo dicendo, il XIV secolo. I Cittadini “appartenevano alle famiglie nobili di agiati possidenti, o d’uomini insigni per lettere,per scienze,e specialmente istruiti nelle facoltà Legali, o distinti per gradi militari“. Il secondo Ordine municipale, quello dei Banderari, “comprendeva gli onesti Artieri, gli Agricoltori , i commercianti, e generalmente la parte sana del Popolo, ed innalzavano particolar Bandiera”.

Erano 24, come i nobili,e rappresentavano in Consiglio i 6 rioni in cui era suddivisa Terni. Francesco Angeloni scrive che sotto la “particolar Bandiera si radunassero nei bisogni le persone del popolo, sottoposte ai rioni loro, e di banderari portarono il nome“. Anche i nobili avevano la loro bandiera.

Anzi, “Usavansi molto prima di allora, come pur oggi avviene, dal pubblico di Terni tre suggelli, nell’uno dei quali è scolpito il tiro animale simile al drago“.

E i banderari lo esibivano “portandolo eziandio nell’insegna, e arme di colore verde in campo rosso”. Questi riprendono le Riformanze, “aspirar non potevano agli onori ed alla dignità del Magistrato Supremo de’ magnifici Priori; ma per altro ne erano ammessi al sindacato”. Tanto che senza l’assenso dei banderari “sarebbe stato nullo qualunque atto di nomina consiliare“.

Oltre al Consiglio comunale detto Minore, Terni aveva anche il Consiglio Generale o Consiglio Maggiore. “il quale solea convocarsi per affari di alto riguardo, o quando si fosse trattato della suprema salute o conservazione della Cosa pubblica; come anco in esso tornavano a proporsi e sanzionarsi alcune delle risoluzioni adottate nel Consiglio Minore,od altre cose sulle quali questo si fosse dichiarato incompetente “. Al Consiglio maggiore un tempo poteva “intervenire chiunque fosse nato libero, di maggior età, e non interdetto per condanne infamanti. Si ragunava dapprima a suon di Tromba, indi della Campana pubblica: in alcune vie, fra le quali in quella presso la Parrocchiale di S.Croce, o nell’altra detta oggi via dell’Arringo, che dalla Nazionale conduce alla Cattedrale, nelle Piazze, negli atrii de’ Conventi di S.Pietro o di S. Francesco, od in altri luoghi di sufficiente capienza per cateste numerose assemblee a seeconda de’ casi di versi“. Poi gli fu data sede stabile:”si ragunava o nel Palazzo del Podestà in Platea Colu narum (oggi Piazza della Repubblica,ndr ) od in quello del Magistrato“. Nel 1387 Podestà Vicari o di Terni era Raniero Di Ugolinuccio di Baschi. Che aveva, quale segretario Pietro da Rieti. E l’ Angeloni scrive che “circa quel tempo(1352,ndr) podestà di Terni era Ugolino Neri dei Baschi del colonnello di Monte Marano“.Il terzo Teverino che ebbe La podesteria di Terni fu (1303) il N. H. Offreuduccio Di Ugolino di Alviano.

Lodovico Silvestri scrive che il 4 agosto 1387 uno “Splendito esempio di sensata e ben calcolata moderazione ci porge la saggia risoluzione presa dal general Comizio in questo giorno“. Stava per arrivare il nuovo Podestà, e Terni era tutt’altro che pacificata.”La cacciata de’ Guelfi da questa Città fu un serio avvenimento, come rammentammo; gli odj duravano ancora, e la vendetta non mai satolla dell’altrui danno”. Quindi, per mettere al riparo Raniero Di Ugolinuccio di Baschi da consigli interessati e da probabili strumentalizzazioni di parte, il “general Comizio” deliberò un’amnistia generale. Al ché “fu risoluto: Che su i delitti riferibili strettamente a quel’epoca,non si fosse potuto in verun modo inquirere, neppur anco d’officio, dal nuovo Podestà; obliasse l’idea e la riminiscenza del triste passato; per nuovi reati soltanto si compilassero nuovi processi, o si compisser quelli di già iniziati, ed avessero piena esecuzione con le norme di giustizia le sentenze rese in proposito, sia dal bargello in assenza del Podestà, sia da quest’istesso, con regolar procedure a forma di legge”. Poi, “Ritornata la Città in quiete dopo i deplorati trambusti si credè necessario di procedere a nuovo ordinamento Municipale,specialmente in ciò che concerne la formazione dei Consigli”. Fu deciso di non convocare più il Consiglio Generale “in massa di tutto il Popolo”, portandolo a 100 membri, dei 160 che aveva.